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 M3 – 577 parole

 

 

 

 

 

La strada sfreccia fuori dal finestrino, in un miscuglio non troppo definito del verde degli alberi e del grigio dell’asfalto. Ogni tanto si intravede una segnaletica blu o il profilo poco aggraziato di qualche vecchia casa. 

Il paesaggio è completamente diverso rispetto a quello a cui sono abituata, anche se ogni tanto vedo un edificio o un cartello familiare. Sono anni che non torniamo in molise, forse anche dieci. Con il trascorrere del tempo, i viaggi di famiglia, in auto o con altri mezzi di trasporto, si sono assottigliati, fino quasi a scomparire. Trascorrere Pasqua con la zia e le cugine di Campobasso, che era una abitudine dell’infanzia, ha iniziato a diventare un obbligo e poi un castigo, tanto che  un anno non ci siamo andati perché mio padre non stava bene, un altro io l’ho mancato per una Pasquetta con gli amici, un altro ancora neanche ne ricordo il motivo, fino a che quell’occasione di ritrovo familiare è diventata solo un ricordo sbiadito di quando ero ragazzina.

L’abitacolo della macchina è addirittura diventato troppo piccolo per contenerci tutti, con i miei genitori che nella vecchiaia si sono lasciati andare, allargandosi e sformandosi, e i miei fratello, un tempo piccoli e mingherlini, sono diventati alti, con le gambe lunghe e le spalle troppo larghe. Viaggiare in auto è ormai scomodo e stressante e mi devo schiacciare contro lo sportello dell’auto, con la testa quasi fuori al finestrino, nel tentativo disperato che il vento sul viso lenisca un po’ la nausea data dal movimento del veicolo.

Sono appena due ore e mezza di viaggio, ma è triste e spiacevole. Una serie di litigi e frecciatine, con il paesaggio che scorre fuori dal finestrino e la musica di sottofondo, impostata su una stazione vecchia e che dà musica che nessuno di noi conosce. 

I rapporti a casa sono peggiorati. Siamo diventati adulti e i miei genitori vecchi. Non trascorriamo una domenica tutti insieme da non ricordiamo quando – una volta adolescenti, i miei hanno deciso di tenere aperto il locale anche la domenica, un po’ per lavorare di più, un po’ per fuggire dall’aria pesante e avvilente della casa.

Il viaggio è triste e spiacevole, perché chiusi dell’abitacolo non possiamo più fingere di non riconoscerci più, di sapere a malapena cosa faccia l’altro e di non aver più niente di cui parlare.

Si fanno i soliti discorsi di routine, si bisticcia per il poco spazio, per la musica troppo alta, per l’ennesima frecciatina sul peso o sull’inconcludenza della mia esistenza. Vorrei fuggire da questo viaggio faticoso e pesante, che porta a galla malumori celati da tempo, nascosti nei ricambi del tempo. 

Mi manca l’aria e inghiotto un po’ di saliva, per poi umettarmi le labbra e reclinare la testa all’indietro. 

- Manca molto? – chiedo, un po’ perché mi sento soffocare da tutta questa situazione così pesante, un po’ perché il silenzio è strano e insopportabile. 

- Siamo quasi a Isernia – risponde mia madre. Neanche si volta a guardarmi. 

- Ancora una quarantina di minuti – riprende mio padre e poi più nulla. 

Mio fratello minore è seduto nel mezzo, le gambe divaricate per le ginocchia piegate verso l’alto per entrare a forza nell’auto. Si è messo le cuffie e si è estraniato dal mondo già da un po’, messaggiando con la fidanzata.

Fuori il paesaggio cambia, il verde si fa più intenso e il cielo più grigio. L’auto prende l’ennesima curva e lo stomaco mi si rivolta. 

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