Random (#17)
Mar. 6th, 2020 04:41 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
- 4000 parole;
- Originale;
- Prompt: Immagine Indonesia, M2
I raggi del sole mattutino filtravano fiochi dall’ampia finestra, illuminando la camera. Alle pareti vi erano scaffali ingombri di libri, piccoli, grandi, colorati, alcuni talmente consumati che le pagine sembravano essere rimaste insieme per miracolo. C’erano tomi enormi, rilegati in pelle e dall’aspetto antico, altri di misura più piccola con le copertine rigide. In un angolo era riposta, con ordine minuzioso, un’enorme quantità di pergamene dall’inchiostro sbiadito e la carta ingiallita dagli anni. Sotto la finestra un tavolo di mogano, di quelli massicci, adatto ad accogliere chi volesse dilettarsi nella nobile arte dello studio. Anche di una certa scena, se la si voleva dire tutta. Uno di quei tavoli di tutto rispetto, di quelli che si guardava e già si sentiva di star facendo un ottimo lavoro, anche se non si aveva ancora aperto neanche il libro o intinto la punta del calamaio nell’inchiostro.
China su un’antica pergamena una donna faceva scorrere frenetica lo sguardo fra le righe vergate in una scrittura ordinata ed elaborata, mentre, seduta al suo fianco, una ragazzina leggeva annoiata un libro di magia buttando, di tanto in tanto, l’occhio fuori dalla finestra. Fuori era una splendida giornata, una di quelle adatte da trascorrere giù alle grandi cascate, a giocare a nascondino con le creature della foresta o facendo i tuffi nel piccolo lago che nasceva dalla confluenza delle acque delle cascate del Nord.
- Tosha! - la richiamò la donna con voce severa, ferma, con lo stesso tono inflessibile che era solo preludio di una ramanzina – Concentrati! - le ordinò, picchiettando il dito ai lati della pergamena, sulla superficie del tavolo.
- Sì, maestra! - brontolò la ragazzina portandosi una ciocca di capelli biondissimi dietro l’orecchio appuntito e facendo guizzare un’ultima volta gli occhi verdi sul cielo azzurro.
La lezione della mattina trascorse incredibilmente lenta, con il sole primaverile che le si poggiava sulla pelle, come in una beffa crudele, e le creature del bosco che di tanto in tanto sfrecciavano davanti la sua finestra, intente a rincorrersi e a ridacchiare.
Tosha non era mai stata un’alunna diligente, una discepola facile o appassionata alla materia. Rientrava in quelle creature svogliate e lamentose che non sanno cosa farsene delle lezioni teoriche e che agognano con ogni fibra del proprio essere la libertà e la possibilità di imparare nella pratica quello che non volevano leggere sui libri.
Negli anni, la donna ne aveva visti a decine così, e a decine ne aveva poi visti fallire e rinunciare ai suoi insegnamenti per una vita misera e priva di gloria. È nel fisiologico scorrere delle cose, in pochi possono davvero dedicarsi a tessere l’arte delle parole e della conoscenza.
“Non c’è premio, senza sacrificio” era il mantra con cui era stata cresciuta e con cui i suoi predecessori erano stati accompagnati durante gli studi e la vita, in una nenia infinita e implacabile, che ricordava a tutti loro che non c’era scampo, non c’erano vie facili o più veloci; che la conoscenza, il potere, l’arte di modellare le cose non la si otteneva gratis, non era il dono del cielo, ma la ricompensa della terra. Tosha non aveva mai dato segni di essere particolarmente dedita al sacrificio, evitando con maestria di doversi impegnare più del necessario in tutte quelle attività che non le accendevano la scintilla dell’interesse. Al villaggio rimaneva un mistero perché fosse stata scelta per la Conoscenza, lei che non portava su di sé nessun segno particolare, né era stata indicata dal Cielo, né apparteneva a quelle famiglie fortunate che potevano permettersi di pagare per fingere di essere stati benedetti dal dono di modellare la natura.
Prima che fosse ora di pranzo, la maestra diede il permesso alla ragazzina di andare e Tosha non se lo fece ripetere due volte: sfrecciò fuori dalla stanza polverosa e ingombra di libri sbattendo la porta e incespicando sui suoi stessi piedi.
Non era davvero il genere di allievo a cui qualcuno avrebbe voluto tramandare la propria conoscenza, priva di tutte quelle caratteristiche necessarie a renderla modellabile. Tosha era più indicata per essere una delle tante ragazzine che se ne andavano bazzicano sulle strade di paese, cercando di farsi raccontare per due spicci le storie dei viandanti o che facevano a gara con i maschi in tutti quei giochi poco onorevoli che una signora delle cose non dovrebbe neanche conoscere.
Più di una volta la donna l’aveva sorpresa a dare la caccia alle lucertole, agli insetti più strani, per il solo gusto di poter poi mostrare agli altri mocciosi del paese il proprio bottino.
- Sei crudele - le aveva detto la donna una delle prime volte che la incontrava, quando non era ancora la sua allieva, ma solo un volto poco familiare in un paese che non le apparteneva e in cui credeva di essere solo di passaggio.
La bambina si era guardata le mani, la coda della lucertola che le si agitava ancora sulla pelle. Il resto del corpo era riuscito a mettersi in fugo.
Il misto di vergogna e contrizione che le lesse negli occhi fu uno dei motivi che spinse la donna a prenderla sotto la sua ala; un altro era che in Tosha rivedeva un lato di sé che credeva avesse anche dimenticato fosse esistito.
Come d’abitudine Tosha borbottò qualche maledizione contro Haleyana, la custode delle antiche arti magiche elfiche e, purtroppo per lei, la sua inflessibile maestra. Non è che la odiasse o odiasse quello che cercava di insegnarle, ma si rendeva conto che non fosse un’arte indicata per lei e non poteva che chiederle per lei e non un altro dei bambini del villaggio. Oltre al fatto che lo avvertiva in ogni fibra del suo essere, in ogni muscolo che le tirava per le troppe ore sedute, negli occhi che dopo un po’ le pizzicavano, nelle dita che passavano con astio sulla superficie crespa dei libri, nella noia che le grattava sotto la pelle, che quello non fosse il suo posto, che quello che faceva non le apparteneva e che avrebbe continuato a non essere parte di lei. Si vedeva già condannata a un’esistenza svagliata, a una strada che non voleva, a essere perennemente additata come un’ingrata, lei che aveva avuto la fortuna di tutte le fortune e che non sentiva di meritarla né di desiderarla. Tosha era nata per il bosco, per giocare tra le cascate, per immergersi nelle acque un po’ acquitrinose delle pozze d’acqua e per giocare con le creature del bosco. Era nata per essere libera e per essere modellata dalla natura, dal verde delle foglie e dal fango e dall’acqua, non per essere lei a modellare e controllare ciò che le era intorno. L’idea stessa di fare forza sulla natura, sulla foresta, sulle creature fatate che lo abitavano, la metteva a disagio e le creava una sorta di disgusto che difficilmente riusciva a mandare via.
Starnutì mentre si batteva la tunica azzurra per liberarla dalla polvere: si era fatta cadere un’intera pila di pergamene addosso e un consistente strato, con tutta probabilità più vecchio di lei, di polvere le si era riversato sui vestiti, ma quella vecchia megera aveva fatto finta di niente e l’aveva costretta a continuare a leggere il noiosissimo libro che parlava dei trattati di pace tra le popolazioni elfiche e i popoli che abitavano le terre al di fuori del Grande Bosco.
Probabilmente di tutte le lezioni, quella di storia era quella più noiosa, quella che più detestava. Ricordare i nomi, le date, gli accordi era un tormento, una punizione che non meritava. Tosha non era fatta per le cose mnemoniche, per imparare e ricordare nomi che non riusciva neanche a pronunciare e a parlare di luoghi che non aveva visto di persona.
La storia era terribile, l’avrebbe completamente eliminata dai suoi doveri, non le era neanche utile per imparare a modellare le cose.
- La storia deve essere conosciuta. Non puoi evitare le catastrofi, le guerre e le morti, se non sai degli sbagli di chi ti ha preceduta - le aveva detto la sua maestra una volta, dopo l’ennesima lamentela.
Tosha aveva arcuato un sopracciglio biondissimo, per sottolineare di essere poco convinta, ma la donna non aveva dato particolare peso alla cosa.
- Ecco, qui - le aveva detto, picchiettando il dito su un rigo del libro - Ci siamo fermate qui. Continua a leggere, cara -
Sbuffò, si portò le mani dietro la nuca e, con passo lento, si diresse verso la palestra dove si sarebbe dedicata ad un’attività molto più divertente dello studio e con una persona decisamente più simpatica di Haleyana. Lo avevamo già detto che la pratica le era decisamente più affine?
La palestra era una stazzona grande e spaziosa, con quattro finestre su ogni parete e il pavimento ricoperto di tappeti che avevano visto momenti migliori. Quando Tosha vi arrivò, si guardò un po’ attorno. Non era mai facile trovarlo, si nascondeva in modo impeccabile, stendendosi dietro una pila di tappetini o su una delle panchine, una di quelle nascoste dalla luce sterna, o semplicemente si faceva trovare al centro della palestra, esattamente dove uno non sarebbe andato a cercarlo.
Quel giorno lo individuò quasi subito - era un giorno fortunato, si disse - e sorrise. Silenziosa gli si avvicinò e quando gridò – Buh!- questo sobbalzò facendo cadere la spada che stava lucidando.
- Ma che diavolo.... Mocciosa! Mi hai fatto prendere un colpo! - sbottò il ragazzo guardano scorbutico la ragazzina che lo fissava infastidita dall’appellativo.
- Stai perdendo colpi, Yante. - lo derise sorridendo allegra e facendo dondolare i capelli biondi. Sapeva che a lui piacessero.
Gli voltò le spalle e andò a recuperare la sua spada nell’armeria - una stanzia piccol a a cui si accedeva dalla parete destra della palestra per mezzo di una porta malandata e senza un cardine.
Tosha odiava separarsi dalla propria spada, lei che per tutta l’infanzia era sempre stata accompagnata da un’arma, anche mentre dormiva, ma Haleyana era stata inflessibile. Quella donna era irremovibile quando si trattava di armi.
- Non voglio niente di letale in giro durante le mie lezioni altrimenti addio allenamenti, addio magia, addio Yande - le aveva detto, sicura di colpire nel segno. Tosha si era arresa ancora prima che la maestra se me rendesse conto.
Quando tornò in palestra, con la sua amata spada stretta nella mano destra, trovò Yante già in posizione d’attacco, il capelli riccioluti, solitamente tenuti davanti agli occhi azzurri, tirati indietro e un ghigno sulle labbra sottili.
Immediatamente i due si lanciarono l’uno conto l’altra dando inizio ad una danza frenetica fatta di affondi e schivate, movimenti fluidi e secchi, accompagnati dal suono ritmico delle spade che, cozzando, producevano un tintinnio metallico.
Era sempre così tra loro, quando impugnavano un’arma. Parlare era superfluo e tutto quello che desideravamo era dimostrare all’altro di essere diventato più bravo, di aver imparato una cosa nuova. A ogni affondo, a ogni parata, a ogni azione o scatto, era un guardami, vedimi, superami.
Più di una volta Tosha cercò di mettere a segno una buona stoccata, ma Yante puntualmente la bloccava ghignando. Era indubbio che lui fosse più bravo, più esperto e che tra i due ci fosse un dislivello che difficilmente poteva essere raggiunto semplicemente giocando a farsi la guerra. Yande non era un maestro d’armi, non era padrone della spada, né era da considerarsi un guerriero fatto. Era anche lui, come Tosha, un allievo, solo di qualcosa di diverso. Prestarsi a insegnarle l’arte della spada era solo un passatempo per ingannare il tempo e se stesso in attesa che il Cielo inviasse un messaggio sul prossimo cammino da intraprendere.
Quando sbagliava o metteva il piede in fallo, Yande la colpita con il piatto della spada e non aveva neanche bisogno di tradurre a parole il rimprovero per quell’errore da principiante. Tosha lo leggeva nei suoi occhi, vedeva il rimprovero dietro le ciglia chiare e improvvisamente avvampava e si mordeva le labbra. Non le piaceva sbagliare, non con la spada, non nell’atto pratico,
Continuarono a duellare per un buon quarto d’ora, con le spade che cozzavano e Yande che fingeva di non poter avere la meglio in qualsiasi momento. Allenarsi insieme non era divertente, non avere un avversario alla propria pari non era divertente, ma in un villaggio di contadini, in una regione pacificata da decenni e il cui pericolo più grava potevano essere i parassiti nei campi, non poteva chiedere poi molto. Il cielo lo aveva fatto arrivare lì e la ragione era chiara. Solo quella ragazzina poteva giovare della sua presenza e lui non poteva sottrarsi al volere degli dei, anche se spesso era tentato di prendere la propria spesa e riprendere il cammino che lo aveva portato lì, solo a ritroso, alla ricerca di una nuova avventura un po’ più gratificante. Subito dopo si sentiva meschino e piccolo per quel pensiero così poco nobili e del tutto lontano dalla vita a cui si era votato.
Stoccata, affondo, parata, stoccata e affondo ancora. Tosha era decente, non brava, non superba, non una guerriera nata, non sarebbe mai diventata famosa per i mille nemici decapitati con un solo colpo di spada, ma non era neanche del tutto incapace. Aveva rapidamente capito come bilanciare il peso della spafa, come fare leva sull’elsa e come non allontanare mai la spada da corpo di modo da non offrire un facile varco all’avversario. Nel complesso, Yande avrebbe anche potuto ritenersi fortunato che il cielo gli avesse dato un’allieva quasi degna di portare una spada e che con il tempo avrebbe anche potuto diventare una guerriera discreta - molto tempo.
- Attenta - le disse poi, quando le occhiatacce non furono più sufficienti. In un attimo di distrazione Tosha si allargò troppo in un affondo e fu disarmata. La sua spada volò lontano e quella del suo avversario le si avvicinò pericolosamente alla gola. Sapeva che non le avrebbe fatto alcun male, ma non poté ugualmente impedire al proprio corpo di deglutire rumorosamente.
- Hai perso, mocciosa - le disse solamente, per sottolineare l’ovvio.
- Non vale! E non chiamarmi così, brutto, brutto, brutto… - si infervorò. La differenza di età tra i due era irrisoria, quattro, forse cinque anni, ma se uno era già sulla strada per diventare un uomo, l’altra era ancora una ragazzina, con ancora i tratti caratteristici dell’infanzia, le guance piene e la statura minuta di chi non ha avuto tutto il cibo che meritava. Tosha detestava che sottolineasse il fatto che fosse più piccola di lei, anche se non avrebbe saputo dire il perché.
- Brutto cosa? - la sfidò il ragazzo, punzecchiandole la pelle tenera del collo con la punta spuntata della spada. Tosha non si spaventò.
- Idiota! - concluse lei incrociando le braccia sotto il seno minuto, imbronciandosi e gonfiando le guance. Non era mai stata un fulgido esempio di maturità
- Vuoi la rivincita? - le chiese con sguardo di sfida.
- No - gli rispose lasciandolo sconcertato, ma poi si affrettò a spiegare – Devo andare a prendere delle erbe per la vecchia - sospirò. Lei odiava tanto, ma proprio tanto, quella donna.
- Ah! D’accordo, allora facciamo la prossima volta. Mocciosa - le posò una mano sulla testa scompigliandole i capelli, poi la fece scendere su di un orecchio appuntito accarezzandolo.
Tosha arrossì vistosamente al tocco del compagno e si scostò. Gli fece la linguaccia e, prima che lui potesse aggiungere altro gli voltò le spalle e se ne andò.
A passo spedito uscì dal palazzo che ospitava la palestra e si inoltrò nel bosco.
Seduta su un masso Tosha si rigirava tra le mani un sassolino; ne carezzò la superficie liscia un’ultima volta e poi lo lanciò lontano. Lo vide sparire nei flutti di una delle cascate.
Sbuffò, aveva trovato quasi subito le erbe che occorrevano a Haleyana, conosceva quella foresta come se ci fosse nata e le lezioni di botanica erano le uniche che per lei valessero la pena di essere seguite. Aveva riposto tutto in una sacca di pelle che le pendeva dalla cintola dei pantaloni e poi si era accasciata su uno dei sassi piatti in prossimità del vuoto in cui confluiscono le cascate.
Gli occhi vagavano per la radura, non riuscendo a soffermarsi mai su un solo soggetto più a lungo che su un altro, e così la mente. Il pensiero di Yante le solleticava dietro gli occhi, nel ricordo di lui che le sfiorava le orecchie o le sorrideva. Avvampò.
Un movimento la ridestò dai suoi pensieri e automaticamente mise una mano sull’elsa della spada e abbassò lo sguardo. Quando i suoi occhi verdi incontrarono quelli azzurri di una creaturina a lei ben nota, sorrise. Allungò una mano e la creatura vi salì leggiadra.
Tosha squadrò la Nixy: non era più alta di un pollice, la carnagione bianca emanava una luce soffusa, gli occhi decisamente sproporzionati rispetto al resto del corpo la scrutavano enigmatici, i capelli di un improbabile fucsia acceso risaltavano sul pallore della pelle e le scendevano fin sopra la piccola veste verde, che altro non era che una foglia.
- Ciao, Mya! - la salutò la ragazzina e la piccola Nixy fece altrettanto, con un leggiadro inchino.
Tosha cominciò a parlare con la creaturina, era un’abitudine che aveva preso già quando era bambina: passava ore e ore nei boschi discutendo del più e del meno con la Nixy che la ascoltava incantata. Mya era decisamente una presenza più allegra di quella di uno degli abitanti del villaggio. Le Nixy di solino non avevano contatti con gli esseri umani, rimanevano al sicure nel folto del bosco, e decenni prima avevano rischiato l’estinzione a causa del bracconaggio. Erano creature miti e riservate e la loro ignoranza del mondo degli umani permetteva a Tosha di far pendere Mya dalle sue labbra. Spesso si creavano strani equivoci, perché la Nixy non capiva l’ironia o i modi di dire umani.
Le raccontò della lezione di scherma, di come Yante le avesse toccato l’orecchio e arrossì ancora di più quando la creaturina le chiese il senso del gesto.
Le due iniziarono un’accesa discussione durante la quale Tosha spiegava i comportamenti e dei loro significati alla Nixy e questa ribatteva dicendo che erano comportamenti stupidi e privi di senso. Vero, le avrebbe dovuto concedere una parte di sé, ma Tosha era ormai entrata nell’adolescenza, in cui dare ragione a qualcun altro in una discussione sembrava essere una terribile vergogna. In fondo, però, per lei Yande non aveva senso a prescindere.
Passò molto tempo e le due smisero di parlare solo quando un vento freddo le fece rabbrividire.
Inconsciamente Tosha portò lo sguardo color smeraldo sul cielo che era divenuto scuro. Il sole era stato oscurato da dei nuvoloni carichi di pioggia. Insolito, per quella stagione.
Sgranò gli occhi mentre intravedeva una figura anguiforme muoversi sinuosa nel cielo scuro.
Il cuore perse un battito riconoscendo la creatura, e la pelle dietro al collo le si ghiaccio e le viscere furono scosse da un moto di terrore: un drago! Non ne aveva mai visto uno, ma i racconti in merito erano troppo vividi per potersi sbagliare.
Un enorme drago blu annodava le proprie spire nel cielo, entrando e uscendo dalle nuvole. La ragazzina lo vide dirigersi verso il villaggio.
Tosha scattò in piedi facendo cadere la Nixy per terra. La creatura non proferì parola, non fece neanche un verso. Nella sua lunga vita aveva visto ripetersi quella scenda almeno cinque volte e già conosceva l’esito dell’avvenimento. Osservò l’amica correre via e in silenzio le disse addio.
Attraversò il bosco in un tempo che le sembrò infinito, con il cuore in gola e le ginocchia che minacciavano di cedere a ogni falcata; rischiò più volte di scontrarsi con qualche albero o di essere falciata da una radice.
Il villaggio era quasi completamente distrutto, le piccole capanne erano state date a fuoco e risaltavano cupe nell’oscurità, in tutta una serie di macabre pire. Il cielo si era oscurato, per le nuvole, per il fumo, per la morte.
Nella penombra intravide un soldato. Il suo corpo si mosse da solo, sguainò la spada e gliela conficcò nel petto. L’uomo cadde a terra producendo un suono strozzato mentre una macchia rossa si allargava lenta.
Tosha lo guardò terrorizzata, non aveva mai ucciso un uomo. Si riscosse quando sentì un singhiozzo e per un secondo ebbe il dubbio che fosse il proprio.
Con passo felpato si avvicinò al corpo di una donna e con orrore si rese conto di conoscerla. Di fianco alla donna una bambina piangeva in silenzio scuotendo il corpo privo di vita della madre.
Tosha cercò di spostare la bambina che opponeva resistenza continuando a chiamare con voce flebile la madre. Non c’era panico o paura, solo la triste rassegnazione di chi sa di non avere più altro.
All’improvviso la piccola si accasciò a terra. Una freccia l’aveva colpita all’altezza del cuore.
Veloce la ragazza si rialzò guardando con terrore in giro, poi un dolore acuto ad un fianco la fece gemere e cadde a terra. Perse i sensi e con essi fu sicura di perdere la vita.
Quando riaprì gli occhi la pioggia le picchiettava sul viso. Ci mise qualche secondo a riordinare le idee.
Con uno scatto si mise a sedere e un dolore lancinante le mozzò il fiato. Con cautela si tastò il fianco e le mani le si sporcarono di sangue. Strinse i denti e si rimise in piedi. Il cielo era divenuto grigio, il villaggio sembrava disabitato, qua e là c’era qualche corpo, il fuoco era stato spento dalla pioggia.
Con passo lento si trascinò verso il palazzo, magari c’era ancora qualcuno, magari c’era ancora la vecchia Haleyana che l’avrebbe guardata scorbutica per poi rimproverarla di non averle portato le erbe che le servivano per curare i feriti, o magari ci sarebbe stato lui ad aspettarla col solito sorriso beffardo. Si mosse con gli occhi sbarrati e la mente che smaniava per fingere che andasse tutto bene.
Quando arrivò dinanzi all’imponente palazzo di marmo bianco sbiancò ancora di più. Era quasi del tutto distrutto, le scale erano disseminate di corpi, molti li conosceva: erano stati suoi compagni e a volte si era allenata con qualcuno di loro a tirare di scherma.
Con una certa riluttanza salì le scale. Quando si trovò nell’ingresso del palazzo fu colpita da un conato di vomito che trattenne a stento. Con passo incerto si avvicinò alla donna stesa a terra. Sgranò gli occhi incredula riconoscendo nella figura la sua maestra.
Il volto austero e severo contratto in una smorfia di dolore le fece contorcere lo stomaco. Si chinò e mise una mano sulla spalla sottile. Delicatamente la scrollò chiamandola, mentre gli occhi prendevano a pungerle e a velarsi di lacrime. La chiamò con voce rotta, mentre le prime lacrime iniziavano a scenderle per le guance mischiandosi alla pioggia.
Non ebbe risposta. Si portò una mano sulla bocca per frenare un singhiozzo. Fece per alzarsi, ma una mano ossuta e bianca come la morte le si serrò su un polso. Neanche riconobbe quel dito che per anni le aveva fatto ritrovare il segno sui libri. Fremette incontrando gli occhi chiari della donna.
Le labbra sottili si schiusero, tossì macchiandosi il mento spigoloso di sangue e sussurrò il nome dell’allieva. Strabuzzò gli occhi e Tosha pensò che le stessero per uscire delle orbite tanto erano gonfi e sporgenti. Haleyana alzò un braccio, la manica larga della tunica, zuppa, aderì alla pelle sottile e rugosa. A Tosha non era mai sembrata vecchia e debole come in quel momento.
- Vai - soffiò indicando un punto imprecisato, nel fitto del bosco che circondava il piccolo villaggio, irrigidendosi subito dopo. Il corpo si fece molle e il braccio, sollevato a mezz’aria, ricadde al suolo con un tonfo sordo.
Tosha rimase immobile, con gli occhi puntati sul viso della maestra, morta. Avrebbe voluto gridare, riportarla indietro, trovare Yande e scoprire che era solo uno dei lupo stupidi scherzi. La vista le si appanno, il fianco le pulsava e con un’ultima spinta di energia si alzò e corse.
Il mondo che conosceva era finito.