Mar. 15th, 2019
- Fandom: L'Attacco dei Giganti;
- Scritta per la quinta settimana del COW-T9;
- prompt: in fuga;
- 721 parole;
Fuggire, sopravvivere, assicurarsi un posto nella cerchia delle mura più interne è sempre stato il suo scopo. Non essere più la vittima, la preda, trovarsi col costante pericolo e la paura di venir divorato sono le ragioni per cui si è arruolato, per cui si è sottoposto ad allenamenti estenuanti e talvolta umilianti.
Jean Kirstein ha sempre voluto fuggire, essere al sicuro. Non è diventato un soldato per aiutare l’umanità, non ha mai desiderato immolarsi per gli altri o divenire un martire per ispirare i suoi compagni. Jean si è sempre considerato un miserabile, un codardo, uno di quelli che guarda prima alla propria pelle e poi a quella degli altri e per questo non ha mai avuto dubbi su dove volesse essere assegnato. L’accesso al Corpo di Guarnigione gli avrebbe assicurato la sicurezza e l’agiatezza che voleva e di lì a poco avrebbe potuto farne parte, grazie ai suoi voti eccezionali.
Alcuni dei suoi compagni – i più stupidi – volevano fare parte della Legione Esplorativa e Jean li osservava durante il loro periodo da reclute domandandosi da dove venisse quel desiderio suicida che tanto li rendeva allegri e sorridenti. La sola idea di destinarsi a una morte tanto orribile e prematura lo rendevano agitato e gli facevano venire la nausea. – Idioti – borbottava ogni volta che uno di loro faceva cenno alla cosa.
Marco, per fortuna, non vuole morire e Jean gliene è più grato di quanto possa dire. Marco è suo amico, è il suo compagno e Jean trascorre infinite notti ascoltandolo respirare piano nel sonno. Quando fuori c’è la luna piena e nella loro camerata c’è abbastanza luce, conta le lentiggini che gli ricoprono il naso per addormentarsi. Marco non è solo suo amico, lo sanno entrambi e Jean vive nel terrore che uno dei loro compagni lo scopra. È proibito, è disgustoso e provocherebbe la sua immediata esclusione dalla Guarnigione.
Marco, talvolta, quando sono soli o gli altri cadetti non sembrano guardarli, allunga una mano verso di lui per toccarlo e Jean si irrigidisce e scappa. Ha passato una vita intera a scappare da quello che è, a costruirsi un futuro meno pericoloso e a promettersi che andrà tutto bene, che a lui piacciono le belle donne come Mikasa e che non verrà divorato da nessuna creatura mostruosa come quegli idioti che se ne vanno scorrazzando allegramente fuori dalle mura.
La mano di Marco rimane sospesa a mezz’aria, mentre lui si allontana – fugge. Se si voltasse, potrebbe vedere il viso lentigginoso di Marco contratto dal dispiacere e dall’imbarazzo di essere stato respinto – di nuovo.
La notte, però, Jean non fugge e lo cerca, lo tocca e lo bacia. Lascia che la mano di Marco gli faccia cose.
*
In cuor suo ha sempre saputo che non sarebbero mai potuti stare insieme – sono due uomini – ma allontanare Marco è come cercar di rosicchiarsi via un braccio e Jean ci tiene, ai suoi arti. Si sarebbero dovuti separare, una volta diplomati, ma Jean non credeva sarebbe accaduto così in fretta, prima del necessario, prima di potersi dire alcunché.
Osserva il volto lentigginoso di Marco, le lentiggini del naso che risaltano nel pallore e impiega minuti interi a capire perché non possa contare quelle che ha sul naso. Perché non c’è più un naso.
Il cadavere di Marco giace abbandonato per terra, buttato come se non fosse niente, con metà del corpo dilaniata e l’unico occhio restante spalancato per il terrore.
Jean asseconda ancora una volta il proprio istinto e fugge.
*
La pira arde e l’odore soffocante del fumo e della carne bruciata gli fa pungere gli occhi e gli si imprime nei vestiti. I cadetti sopravvissuti sono con lui, Armin, Sasha e Connie piangono, altri di cui non ricorda il nome hanno lo sguardo spento e vitreo come se a bruciare su quella pira ci fossero anche loro.
Jean vuole fuggire, ancora, un’ultima volta, ma non avverte più un motivo per farlo. Lo desidera solo per l’abitudine ormai radicata nel suo essere di battere in ritirata per salvare una pelle che non vuole più.
Quando, alla consegna dei diplomi, si unisce alla Legione Esplorativa, sa che è solo un altro modo per fuggire a quel dolore e a quel senso di colpa che hanno le fattezze di un corpo lentigginoso a metà.
Random (#5)
Mar. 15th, 2019 11:23 pm- Scritta per la quinta settimana del COW-T9;
- prompt: in fuga;
- 606 parole;
I piedi affondano nel fogliame, i rami graffiano la pelle, i cespugli tentano di trattenerlo e lo ostacolano nella fuga. Tutt’attorno è un mare di foglie, tronchi e muschio, di piante e rami caduti. La luce del sole penetra dalle fronde degli alberi e si fa più intensa in quei punti in cui la vegetazione si dirada.
Ispira a pieni polmoni, con l’aria che gli brucia la gola e gli gratta le narici, in tutta una serie di risucchi e ansiti animaleschi e che non ha mai sentito prima – che non credeva di poter essere lui a produrre.
Si scortica la pelle delle mani nel tentativo di darsi un maggiore slancio afferrando qualsiasi cosa gli capiti a tiro, avverte a malapena il dolore per le ferite o per le piante dei piedi che vengono infilzate da rametti e altri piccoli e acuminati oggetti che non riesce a individuare. Il sottobosco è fresco e umido sotto ai suoi piedi, in alcuni punti è persino viscido e in un altro momento – in un’altra vita – potrebbe anche trovare quell’alternanza di sensazioni piacevole e interessante. La fuga, però, non gli dà tempo di pensare, registra le informazioni con una rapidità che non credeva possibile, poi semplicemente tutto ciò che in quel momento non gli serve viene dimenticato.
Dietro di lui sente delle voci, dei passi, forse il latrato di qualche cane. Lo hanno scoperto, si dice con un’euforia incontrollata e fuoriposto, gli stanno dando la caccia, e affretta ancora di più il passo, ignorando il fiato che non ha più e il cuore che minaccia di esplodergli nel petto.
La consapevolezza di essere davvero riuscito a fuggire e di essere ancora in gradi di tenergli testa, dopotutto, di correre un pelo più rapido di loro, di rendergli la cattura sudata e difficoltosa, lo fa sentire euforico. È uscito dalla propria gabbia credendo di trovare la morte appena dopo qualche passo, ma il tragitto che ha percorso si è moltiplicato oltre ogni più rosea speranza e man mano che i suoi piedi si muovono, riscopre una parte di se stesso che credeva morta, dimenticata, annientata. Ogni nuovo passo un tassello del suo essere riprendere colore, vigore, forza. Ricorda il proprio nome, anche se non lo sente pronunciare da così tanto tempo che ne ha perso il conto e lui stesso dubita di riuscir ad articolare quel suono così complesso e disarmonioso che faceva storcere il naso ogni volta che si presentava a qualcuno di nuovo. Ricorda il nome della sua città e i pomeriggi pigri passati sotto al sole, steso sull’erba, o le mattinate trascorse al fiume a pescare. Ricorda cose che non sa se siano vere o solo frutto dell’eccitazione della sua mente, ma gli piace, quel passato che credeva non esistere più.
Salta un cespuglio e rotola per un paio di braccia prima di riuscire a rimettersi in piedi e a proseguire la fuga. Qualcosa si è conficcato poco lontano dalla sia testa, ne ha avvertito il sibilo mortale – una freccia? Un proiettile?
Sa di non poter sopravvivere, che non c’è una vera via di fuga, solo il piacere di far penare i suoi aguzzini il più possibile. Non è fuggito per essere libero, lo ha fatto per ricercare la pace della morte, ma allo stesso tempo ha riscoperto un piacere sconosciuto nella fuga, nella corsa, nel riuscire a sfuggire a quelle mani protese verso di lui ancora per qualche secondo. È vivo, anche solo per qualche attimo in più, anche se in un modo bestiale e animalesco. È vivo e morto allo stesso tempo, in quella fuga fatta di rami, tagli e ansiti.